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PROPOSTE INDECENTI SUL POSTO DI LAVORO

- L’Avvocato del Lavoro commenta:

In quali casi si può ricorrere all’Avvocato del Lavoro per tutelarsi a fronte di avances eccessive sul luogo di lavoro ?

-risponde l’Avvocato del Lavoro.

Cari lettori, l’Avvocato del Lavoro di Milano e l’Avvocato del lavoro di Torino in questo articolo analizzano un tema estremamente delicato, il quale coinvolge apparentemente solo il mondo femminile ma sorprendentemente anche la sfera maschile.

L’Avvocato del Lavoro di Milano chiarisce che ricevere sul posto di lavoro proposte poco consone al luogo, c.d. “avances”, nonché attenzioni particolarmente spinte possono integrare il reato della violenza privata, stalking e, nei casi, purtroppo più gravi, anche il reato di violenza sessuale.

Oggigiorno, il fenomeno oggetto di analisi, è divenuto, ormai, molto esteso specie all’interno di tutti quei ambienti lavoratori ove la tutela del dipendente non viene considerata quale presupposto imprescindibile, nonostante la presenza, all’interno dell’ordinamento italiano, di una diffusa e ben nota normativa.

La giurisprudenza in merito è molto chiara: avances, lusinghe e richieste poco consone, provenienti tanto dai dirigenti quanto dai colleghi.

Ma entriamo nel vivo di tale argomento, evidenziando quali figure di reato si configurano allorquando un/una dipendente subisca proposte indecenti sul posto di lavoro:

L’effetto di tale condotta criminosa è il costringimento di un soggetto a fare qualcosa contro la sua volontà.

Ad esempio, integrano il reato di violenza privata le del capo alle sue dipendenti, abusando del ruolo di superiore gerarchico e configurandosi nell’art. 610 c.p. quando la vittima è costretta a subire ingiuste vessazioni, che inducono non solo sofferenza e malessere ma anche concreti pregiudizi alla sua serenità sul lavoro e alle sue aspirazioni di carriera.

  • VIOLENZA SESSUALE: tale tipologia di reato si configura quando le proposte, le avance, le richieste si concretizzano in un vero e proprio comportamento che trova riscontro tra parole e fatti.

L’Art. 609 bis c.p., , stabilisce che: “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni”.:

Ai fini della configurazione del reato di violenza sessuale come sopracitato, è necessario che i comportamenti, le attenzioni posti in essere nei confronti di un altro soggetto all’interno dell’abito lavorativo, siano annoverabili all’interno della categoria degli atti sessuali, di segui dettagliati:

  • ATTI SESSUALI: per comprendere la definizione di atti sessuali fulcro del reato di violenza sessuale è doveroso eseguire una distinzione tra il criterio oggettivo e un criterio soggettivo. Analizzando, ma non scendendo in competenze penalistiche, l’aspetto oggettivo dell’atto sessuale attiene alle parti del corpo che la scienza medica definisce come “zone erogene” ovvero tutte quelle zone in grado di stimolare l’istinto sessuale. Pertanto, la natura sessuale dell’atto deve essere ravvisata dall’esatta individuazione della zona corporea che l’autore ha cercato di violare con la propria condotta: se la parte del corpo oggetto di attenzioni rientra tra le succitate zone, si integra il reato di violenza sessuale.

Diversamente, per quanto riguarda il criterio soggettivo, si commette violenza sessuale quando la parte del corpo oggetto di attenzioni non può essere definitiva erogena, bensì il comportamento del soggetto posto in essere ha il preciso scopo di raggiungere il piacere sessuale.

Ciò detto, un bacio dato sulla guancia (zona non erogena), se dato con la consapevole malizia al fine di un raggiungimento sessuale, può integrare il reato analizzato. Come sempre, la valutazione è rimessa al pieno apprezzamento del giudice.

A riguardo ricordiamo che secondo la Cassazione costituisce violenza sessuale non solo l’atto sessuale in sé o il tentativo dello stesso, ma anche il toccamento delle parti erogene come le natiche, le cosce, la scollatura, il bacio sulle labbra, sul collo o sull’orecchio. In tutti questi casi, scatta il reato anche se non c’è alcun rapporto sessuale.

Si evidenzia che, laddove si configura il reato della violenza sessuale anche in assenza di minacce o violenze, semplicemente sfruttando la propria posizione di superiorità gerarchica derivante da autorità, di cui un soggetto abusi per costringere la vittima a compiere o subire atti sessuali.

  • STALKING: il protrarsi delle avances, richieste e delle proposte indecenti possono configurare il reato di atti persecutori c.d. stalking. Tale reato consiste in un insieme di condotte persecutorie ripetute nel tempo (come le telefonate molestie, pedinamenti, minacce) che provocano un danno alla vittima incidendo sulle sue abitudini di vita oppure generando un grave stato di ansia o di paura, o, ancora ingenerando il timore per la propria incolumità o per quella di una persona cara. Il/ la lavoratore/trice che subisce tali comportamenti sul luogo di lavoro, ha la facoltà di sporgere querela per il reato di atti persecutori, a condizione che la condotta del datore/collega di lavoro si protragga nel tempo, dunque, ovviamente, il singolo e residuale episodio non è sufficiente.

  • LA PROVA DELLE AVANCES: dimostrare le avances del proprio capo sul posto di lavoro non è così facile: se la vittima infatti è più di una e il boss è avvezzo a “provarci” con tutte, allora, per dare prova delle molestie sessuali subite, basterà che a denunciare il datore sia più di una delle dipendenti. È quanto chiarito dalla Cassazione con una recente sentenza. Se poi il datore di lavoro è così sfacciato da licenziare la lavoratrice che gli ha detto “no”, il licenziamento è nullo perché discriminatorio: in altre parole, l’azienda dovrà reintegrare la dipendente e, per di più, pagarle tutti gli arretrati maturati, come se il licenziamento non fosse mai avvenuto.

Per dimostrare le molestie sessuali in un eventuale processo penale contro il capo (processo evidentemente per il reato di «violenza sessuale») è sufficiente la dichiarazione della vittima che affermi, già nella stessa denuncia, di essere stata oggetto delle attenzioni del datore. Il giudice poi sentirà la lavoratrice e, se riterrà le sue dichiarazioni attendibili, procederà direttamente alla condanna nei confronti del colpevole. Le affermazioni della vittima, infatti, possono essere assunte dal giudice come prova delle accuse quando queste risultino credibili dal contesto in cui sono inserite.

Ora la legge stabilisce che l’onere di provare che non c’è stato comportamento discriminatorio spetta al convenuto in giudizio (il datore di lavoro) e non a chi lamenta la violazione della legge. Il che è confermato anche da una direttiva dell’Unione Europea in base alla quale, sempre in tema di onere della prova, «gli Stati membri, secondo i loro sistemi giudiziari, adottano i provvedimenti necessari affinché spetti alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento ove chi si ritiene leso dalla mancata osservanza nei propri confronti di tale principio abbia prodotto dinanzi a un giudice, ovvero dinanzi a un altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta».

Detto in parole povere, se sussiste un semplice indizio di violazione della regola di parità di trattamento, cui può essere equiparato il comportamento discriminatorio di chi licenzia una dipendente solo perché non ha accettato gli abusi sessuali, spetta al datore di lavoro dimostrare il contrario.

Vuoi saperne di più e scoprire quali sono gli strumenti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico per contrastare condotte lesive della sfera personale di un dipendente da parte di un soggetto gerarchicamente superiore? Rivolgiti ad un nostro Avvocato del Lavoro di Milano o Torino!

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